La psicologa Anna Oliverio Ferraris analizza il fenomeno dei Neet e in particolare delle donne: “Le ragazze fanno i conti con il proprio orologio biologico. Intorno ai 25 anni si dicono pronte a impegnarsi in un progetto di vita, ma l’impossibilità di attuarlo, insieme all’insuccesso scolastico o professionale, viene percepita come inadeguatezza, impotenza, fallimento”. E poi la dittatura dell’immagine.

Tempi duri, per le ragazze del nostro Paese. Non è la scoperta dell’acqua calda se al dato già noto si aggiungono le ulteriori difficoltà delle giovani Neet (Not engaged in Education, Employment or Training). Un esercito che tra ragazzi e ragazze conta circa 2,4 milioni tra i 15 e i 29 anni – il 26% del totale – che per il momento hanno perso il treno dell’istruzione e si trovano ai margini del mercato del lavoro. Con l’aggravante che la maggior parte di loro il lavoro ha smesso pure di cercarlo. In questo universo, peraltro molto variegato e a rischio depressione e disagio emotivo, le donne sono più della metà, per la maggioranza residenti al Sud.

Secondo il “Rapporto giovani”, indagine condotta dall’Istituto Toniolo in collaborazione con Ipsos, tra fine 2013 e inizio 2014 su un campione di 2.350 19-29enni, questa fascia di ragazzi si dichiara, a differenza dei non Neet, “per nulla” o “poco” felice. Le giovani Neet, rispetto agli omologhi maschi, hanno inoltre meno fiducia nelle istituzioni e nelle persone e tendono di più a isolarsi. Ne abbiamo parlato con Anna Oliverio Ferraris, docente di psicologia dello sviluppo all’Università “La Sapienza” di Roma.

È sorpresa che nella generazione Neet siano proprio le ragazze, da sempre considerate più intraprendenti e determinate dei maschi, ad esprimere gli atteggiamenti più “rassegnati” e “rinunciatari”, e a dirsi più infelici?

“No, perché in ragazze di questa condizione ed età l’incapacità di realizzare i propri progetti di vita e il conseguente senso di ‘fallimento’ possono essere avvertiti in maniera più totalizzante. La durezza della crisi economica, il progressivo deterioramento delle condizioni nel mercato del lavoro, la mancanza di meritocrazia a fronte di una cultura del cosiddetto ‘appoggio’ e della ‘raccomandazione’, ancora viva e vegeta nel nostro Paese, producono su maschi e femmine effetti umani, sociali e psicologici devastanti perché alimentano un clima di sfiducia e disillusione, ma per le ragazze la questione è più complessa perché non investe soltanto gli aspetti lavorativi”.

Che cosa intende dire?

“Dopo il senso di onnipotenza coltivato nell’infanzia che a volte, spesso negli ambienti meno attrezzati culturalmente, sfocia in sogni e ambizioni irrealistiche favorite, se non indotte, anche dai media – e qui vorrei ricordare il paradosso della scuola per veline istituita qualche anno fa a Napoli sotto la giunta Bassolino – le ragazze si trovano ad affrontare una triplice ‘sfida’: la realizzazione del progetto scolastico-professionale, di quello esistenziale-familiare, e il confronto tra la propria immagine e la proposta di irraggiungibili modelli di perfezione estetica. Una pressione fortissima”.

Come dire che invece i coetanei maschi si concentrano solo sul primo obiettivo?

“Le ragazze fanno i conti, molto più dei ragazzi, con il proprio orologio biologico. Intorno ai 25 anni molte di loro si dicono pronte ad impegnarsi in un progetto di vita serio e duraturo che richieda impegno e responsabilità a più livelli, anche con la nascita di un figlio, ma i coetanei maschi non sono per lo più sulla stessa lunghezza d’onda, non si sentono pronti e tendono a rinviare. Per molte ragazze, l’impossibilità di attuare questo progetto, insieme all’insuccesso scolastico o professionale, viene percepita come inadeguatezza, impotenza, fallimento; genera vergogna e porta al ripiegamento su se stesse. Poi c’è il confronto, a volte crudele, con la propria immagine. Oggi viviamo in una società dell’apparenza e dell’apparire. Pensi solo alla diffusione del selfie! L’attenzione per la cura del proprio aspetto non è mai stata così presente, anche laddove uno non se lo aspetterebbe come in donne ‘impegnate’ quali le nostre ministre. La sensazione di inadeguatezza su tutti questi tre fronti può trasformarsi per una ragazza in un mix esplosivo di angoscia, infelicità, isolamento”.

Come intervenire per contrastare il fenomeno dei Neet?

“La prima risposta la dovrebbe dare la politica, applicandosi ai problemi reali di un Paese impoverito e tornando ad occuparsi seriamente dei giovani. Servono misure non assistenziali, ma di sostegno al loro ingresso nel mercato del lavoro e all’imprenditoria. Nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta i ragazzi hanno bisogno di ricevere fiducia. Frustrarne costantemente entusiasmo e capacità significa ingenerare la convinzione di non valere nulla”.

Che cosa possono fare famiglia e scuola?

“La famiglia italiana è davvero eroica, ma suggerirei ai genitori di essere meno iperprotettivi. Il regalo più grande che possiamo fare ai nostri figli è l’indipendenza, e questo si costruisce fin da piccoli. Alla fine dell’adolescenza i ragazzi dovrebbero uscire dalla condizione di figli, e se oggi mancano i presupposti perché questo avvenga, occorre almeno evitare che si ‘infantilizzino’ adagiandosi in un tran tran che a volte fa comodo a tutti. Le bambine, nello specifico, dovrebbero essere trattate fin da piccole come i maschi e incoraggiate a perseguire i propri obiettivi. La scuola, e qui torniamo alla politica, non deve più essere considerata la cenerentola del Paese. Se vogliamo sia il luogo in cui i giovani trovano alimento per la loro mente e formazione davvero professionalizzante, occorrono investimenti coraggiosi. Serve insomma una vera alleanza politica-scuola-famiglia”.

G. P. Traversa