L’eutanasia per via procedurale – di questo si tratta e non di suicido assistito – non è solo il punto di approdo dell’individualismo che trionfa sulla relazione. Essa è anche la riduzione dell’autorità al ruolo di gran cancelliere rispetto al bene della vita, totalmente privatizzato.

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Esiste un diritto a ottenere dallo Stato una dose letale di farmaci per porre fine alla propria esistenza? Questa sembra essere la domanda che emerge a seguito della complessa vertenza tra la Confederazione elvetica e la Corte europea dei diritti dell’uomo. Un’anziana cittadina svizzera, che non soffre di particolari patologie fisiche o mentali, ha domandato alle autorità cantonali l’autorizzazione necessaria a farsi rilasciare la prescrizione medica per la dose letale di barbiturico, considerando l’anzianità come una situazione insopportabile. Non avendo ricevuto quel che desiderava, l’anziana signora si è rivolta alla Corte di Strasburgo, la quale è intervenuta per invitare la Confederazione elvetica a stabilire regole chiare, così da permettere ai cittadini di esercitare la propria scelta in merito alla vita privata. Questo in sintesi l’accaduto.

 In attesa di conoscere gli ulteriori sviluppi della vicenda è bene fermarsi per fare qualche rilievo critico, capace di suscitare una reazione all’interno della propria coscienza. Tra i tanti aspetti che si potrebbero evidenziare se ne possono segnalare almeno due.

Il primo è di ordine etico e, in termini più ampi, di ordine culturale. L’eutanasia, perché questa è al centro della questione, viene invocata oggi come un diritto, riconducibile alla sfera di autonomia o di libertà della persona. Come mai questo? Il motivo va ricercato all’interno dell’individualismo contemporaneo, che – come dice il termine – considera il soggetto individuo e non più persona. La differenza è importante, perché il concetto d’individuo connota l’uomo come un mondo chiuso in se stesso e autosufficiente, come voleva la nota definizione di Boezio: l’uomo sarebbe, più o meno, un soggetto di natura spirituale distinto da altri. Il termine persona, invece, coglie l’uomo nella sua dimensione costitutiva, che è quella della relazione: egli esiste in quanto costitutivamente proviene da Dio, resta in relazione con lui, e vive aperto agli altri. A questa visione fanno riferimento tanti filosofi e teologi dal Novecento in poi.

La prima lettura dell’uomo, se ha avuto il merito di stabilire la sua superiorità rispetto al resto del mondo – egli è un soggetto di natura spirituale! – ha la grave conseguenza di chiuderlo in un proprio universo autonomo e indipendente. Così esercita il proprio diritto a scegliere liberamente quello che ritiene giusto per sé; anzi, prima ancora, egli stabilisce quello che è bene e male per sé e il suo giudizio è assoluto.

Eppure, l’esperienza dell’umanità ci dice che le cose stanno diversamente: “Tutti – diceva Benedetto XVI – sappiamo di essere dono e non risultato di autogenerazione. Nessuno plasma la propria coscienza arbitrariamente, ma tutti conoscono il proprio io sulla base di un sé che ci è stato dato. Non solo le altre persone sono indisponibili, ma anche noi lo siamo a noi stessi. Lo sviluppo della persona si degrada, se essa pretende di essere l’unica produttrice di se stessa” (Caritas in veritate, 68). Ciascuno proviene da un altro, grazie ad altri – i genitori – e vive ricevendo e dando a chi sta intorno. Vive realmente in un denso contesto di relazioni. In questo senso ciascuno deve rendere conto delle proprie scelte non solo alla propria coscienza, ma anche agli altri: le proprie decisioni hanno una ricaduta sul mondo intorno.

Allora la domanda è se ci si può sottrarre a questo contesto di relazioni mediante la morte, intesa come frutto di un diritto di scelta individuale. Quello che potrebbe sembrare logico – ciascuno è autonomo – è in realtà assurdo e disumano, perché va contro la verità delle cose, è un male per sé e per gli altri. Immersi in un contesto di relazioni solidali, anche a motivo della propria insufficienza a bastare a se stessi – chi può dire di non aver avuto bisogno degli altri per la propria esistenza – non ci si può sottrarre a proprio piacimento. In questo senso la richiesta dell’eutanasia non è un semplice affare relativo alla vita privata.

Ma c’è un secondo aspetto legato alla vicenda. Quale ruolo ha uno Stato in tutto questo? Chi domanda l’eutanasia, vorrebbe che esso, come un gran cancelliere, si facesse garante dell’esercizio di autonomia di ogni scelta, anche se di segno opposto. Se così fosse, significherebbe chiedere di rinunciare a prendere una posizione nei confronti degli aspetti fondamentali dell’umano. È davvero letale quella libertà individuale che giunge a paralizzare, come il morso di un ragno velenoso, il compito e il dovere dell’autorità di porsi al servizio e a tutela di valori che oggi, come forse mai, appaiono intangibili. Se la vita umana è un bene, ammettere anche solo una deroga, apre a infinite scuciture. Ammettere e tollerare in certi casi e per alcuni la soppressione della vita fisica, a cominciare da quando l’uomo è embrione, conduce a permettere molteplici altri delitti.

Marco Doldi